La funzione di arbitro nominato dalla parte sembra il frutto di un ossimoro, richiedendosi piena indipendenza dalle parti, a una delle quali peraltro deve la nomina.
Quando si richiede una totale asetticità di questa particolare figura di arbitro, si nega l’evidenza delle relazioni umane e sociali che intessono la vita di ciascuno di noi.
Cosa sarebbe un uomo senza rapporti sociali?
Cosa sarebbe un professionista senza rapporti umani e professionali?
Dunque occorre considerare che anche l’arbitro è un uomo e un professionista, parte di una comunità, con tutte le conseguenti relazioni.
È dunque sul proprio prestigio, sul proprio capitale culturale, sul rispetto per sé e per la propria autonomia di giudizio, che può fondare la propria indipendenza e la propria benevola neutralità.
“Solo così, infine, potrà l’arbitro di parte conquistarsi la forza ed il rispetto necessari per potere anche, se del caso, formulare un’opinione dissenziente o, come estremo, ma altrettanto efficace rimedio, rinunziare all’incarico” (dalla prefazione di Stefano Troiano).